Il giardino di Archimede
Un museo per la matematica |
Un ponte sul Mediterraneo Leonardo Pisano, la scienza araba e la rinascita della matematica in Occidente |
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Algebra e Aritmetica nel Medioevo islamico.Clara Silvia Roero
Ricercate la scienza,
Maometto, Hadith
Con l'espansione della dominazione araba, fra il VII e il XII secolo, i paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo assumono una posizione di grande rilievo non solo dal punto di vista politico, economico e commerciale, ma anche culturale, come principale ponte di trasmissione del sapere teorico e pratico delle civiltà antiche: greca, indiana, babilonese e perfino cinese.
Nuove piante e nuovi prodotti, frutto di elaborate tecniche di lavorazione, vengono introdotti in occidente dagli arabi: il cotone, l'arancio, il limone, l'albicocco, il banano, il carciofo, l'asparago, gli spinaci, il cuoio lavorato, i tessuti preziosi, il vetro e i metalli forgiati, l'avorio e il legno intarsiati e si diffonde il processo di fabbricazione della carta con il lino e la canapa. Tramite gli arabi penetra in Occidente nel secolo XI anche l'ago magnetico di origine cinese e l'uso della vela "latina" triangolare che permette di navigare contro vento, adottata nel Mediterraneo nel XV secolo.
Nell'ambito degli studi scientifici e in particolare del pensiero matematico si assiste al fecondo connubio fra la matematica orientale, indiana e babilonese, e quella occidentale, greco-ellenistica. Dalla prima derivano le conoscenze di aritmetica e di astronomia, il sistema di numerazione posizionale e l'introduzione dello zero, mentre dalla seconda le trattazioni sulla geometria piana e solida, sulle coniche e sui fondamenti logici e filosofici delle scienze. Dopo un primo periodo nel quale predominano i saperi giunti dall'esterno, assimilati gradualmente grazie alle traduzioni, si passa all'elaborazione originale delle conoscenze acquisite nei settori più vari della scienza: dall'aritmetica all'algebra, dalla geometria all'astronomia, dall'ottica alla meccanica, alla medicina, all'ingegneria, all'agricoltura, alla geografia. Per merito delle traduzioni effettuate nei paesi islamici dei testi greci e indiani, poi reiterate dall'arabo al latino nella Spagna dei mori, e grazie ai contributi originali degli studiosi musulmani alla scienza, un ricchissimo patrimonio di manoscritti greci e arabi raggiungerà nel Medioevo l'occidente latino e creerà fra il X e il XIII secolo quel travaso di conoscenze e quel substrato culturale che permetterà la ripresa delle attività intellettuali e la rinascita del sapere scientifico, dopo i secoli bui conseguenti alla caduta nel 476 dell'impero romano d'occidente e alle invasioni barbariche. Soprattutto nel campo dell'algebra e dell'aritmetica i semi gettati dagli arabi, e trasmessi in Italia dalle opere di Leonardo Fibonacci Pisano, uno dei più acuti interpreti del loro sapere scientifico, daranno i frutti più copiosi, con la scoperta nel Rinascimento della soluzione delle equazioni di terzo e quarto grado. Noi ci soffermeremo principalmente su questi settori, cercando di delineare le tappe salienti e il ponte culturale attraverso il Mediterraneo costruito dalla civiltà araba. 1. I califfi e la Casa della saggezza a Baghdad.Com'è noto l'era islamica inizia il primo anno del suo calendario nel 622, quando il profeta Maometto, nato a La Mecca nel 570, compie la celebre fuga, detta Egira (in arabo higra), a Medina. Le tribù guerriere dell'Arabia felix si sono fuse, sotto la sua guida, in un unico popolo, unito dalla fede nella nuova religione da lui predicata, secondo la quale l'uomo deve seguire l'Islam, cioè, dal significato letterale del vocabolo, "sottomettersi totalmente alla volontà di Allah", il Dio unico. L'abitudine beduina alla razzia viene sublimata al rango di guerra santa (gihad), concepita da Maometto e dai suoi successori, i califfi, anche come mezzo per superare i contrasti interni fra le tribù, e si trasforma presto in volontà di espansione e di conquista dei territori circostanti. Nel volgere di pochi secoli gli islamici conquistano e dominano un impero sterminato, i cui confini si estendono dal fiume Indo in Asia, all'Ebro in Spagna. Fra il 622 e il 945 l'irresistibile avanzata degli arabi procede infatti dall'Asia all'Europa, dal Caucaso ai Pirenei, conquistando la Persia, la Mesopotamia, la Siria, la Palestina, parte del Turkestan, del bacino dell'Indo e del Kirgizistan, l'Afghanistan, l'Egitto, la Cirenaica, la Tripolitania, Creta e la Sicilia, Cipro, l'Africa settentrionale e la Spagna. All'era dei primi califfi detti Rashîdun, cioè "ben diretti", fa seguito quella degli Omayyadi che giungono ad est fino al Tien-Shan, con la vittoria nel 751 a Talas contro i cinesi, mentre altre unità sottomettono nel 710 le tribù del Maghreb e si spingono, alla testa del berbero Tarik ibn Ziyad, oltre lo stretto che porterà il nome di Gibilterra, da Gebel-el-Tarik "la montagna di Tarik". Dai cinesi gli arabi apprendono le tecniche di fabbricazione della carta e impiantano prima a Samarcanda e poi a Baghdad le prime fabbriche i cui prodotti saranno importati persino da Bisanzio.
È però soprattutto alla dinastia degli Abbasidi che si deve l'alto livello intellettuale e il grande sviluppo delle scienze raggiunto dagli arabi. La matematica che nei secoli VII e VIII era considerata unicamente per la sua utilità nella risoluzione di problemi pratici, sorti dal commercio, dall'architettura, dall'astronomia e in genere legata alle esigenze di vita quotidiana, grazie al mecenatismo dei califfi abbasidi Giafar al-Mansûr, Harûn al-Rashîd e Abdallah al-Ma'mûn[1] conosce fra il IX e il XIII secolo un periodo di straordinaria fioritura. Quest'epoca d'oro, densa di risultati originali, decolla in seguito allo studio e all'assimilazione delle opere dei greci, degli indiani e delle culture dei popoli conquistati. Dopo il 750 molti scienziati, filosofi e traduttori dalla Siria, dalla Persia e dalla Mesopotamia sono chiamati a Baghdad, la "città della pace" fondata da al-Mansûr con pianta circolare, destinata a diventare la nuova capitale della cultura, la nuova Alessandria. Anche la sua posizione geografica, fra India e Grecia, contribuisce a farne il centro del potere sia politico, che culturale. Fedeli ai dettami di Maometto che aveva collocato gli uomini istruiti "al terzo posto, dopo Dio e gli angeli", i califfi abbasidi affidavano l'educazione dei loro figli a eruditi, scienziati, poeti e musicisti, persuasi del detto popolare che "istruire l'infanzia è scolpire nella pietra". Lo storico Masudi narra come Harûn al-Rashîd avesse scelto per suo figlio il grammatico al-Ahmar, ammonendolo con queste parole:
Il principe dei credenti ti affida il suo sangue più prezioso, il frutto del suo cuore. Ti lascia piena autorità su suo figlio e gli fa un dovere di obbedirti. Sii all'altezza del compito che il califfo ti ha assegnato: insegna al tuo allievo il Corano, fagli conoscere le tradizioni; orna la sua memoria con le poesie classiche; istruiscilo nelle nostre sacre usanze. Che egli misuri le parole e sappia parlare a proposito; regola le ore dei suoi svaghi. Insegnagli ad accogliere con rispetto gli anziani e a trattare con riguardo i capi che assisteranno ai suoi ricevimenti. Non lasciar passare un'ora della giornata senza trarne profitto per la sua educazione. Non essere né tanto severo da mortificare la sua intelligenza, né tanto indulgente da far sì che si abbandoni alla pigrizia e ci si abitui. Correggilo, per quanto dipenderà da te, usando l'amicizia e la dolcezza, ma se queste non hanno effetto su di lui, usa la severità e il rigore.
Lo stesso Harûn aveva avuto dal padre Mahdi come pedagogo il famoso intellettuale Kisai e come tutore Yahya il barmecide, uno degli uomini più notevoli e intelligenti che abbiano governato i paesi arabi.
Sotto i califfi abbasidi la corte di Baghdad si apre alla cultura e alle raffinatezze e soprattutto Harûn tende ad attirare nella sua orbita gli uomini considerati più eminenti nelle scienze, nelle lettere e nella teologia. Questi personaggi di talento, chiamati nadim, "compagni del califfo", sono ricompensati con elevati stipendi e doni e hanno come compito quello di interessarlo e distrarlo. devono saper insegnare senza pedanteria, saper conversare sui temi più disparati, eccellere nella caccia, nel tiro a segno e nei giochi della palla, degli scacchi, del tric-trac. Uomini e donne con queste qualità frequentano il fastoso palazzo e gli incantevoli giardini, dove i fiori sono disposti in modo da riprodurre famose poesie, gli alberi sono rivestiti di metalli preziosi tempestati di gemme e nei laghetti le ninfee disegnano le lettere di un versetto in gloria del califfo. Si narra che Harûn amasse pure circondarsi delle donne non solo più seducenti, ma anche più intelligenti e più dotate nel gioco degli scacchi, nel canto e nella musica. Pare che egli ricompensasse con favolosi doni le giovani schiave del palazzo che meglio giocavano a scacchi, e che avesse inviato alcune sue spose e concubine a Medina a imparare nelle famose scuole di musica, affidando la loro istruzione al celebre cantante e poeta Ishak. Nelle Mille e una notte troviamo pittoresche descrizioni dell'atmosfera raffinata e colta che si respirava alla corte di Harûn al-Rashîd e di al-Ma'mûn:
Quel giardino si chiamava giardino delle delizie e in mezzo ad esso c'era un palazzo che si chiamava palazzo delle meraviglie ed era di proprietà del califfo Harûn al- Rashîd. Quando il califfo si sentiva il cuore oppresso veniva in quel giardino e in quel palazzo a cercare sollievo e distrazione l'intero palazzo era formato da un'unica immensa sala, illuminata da ottanta finestre quella sala si apriva soltanto quando veniva il califfo. Allora si accendevano tutte le lampade e il grande lampadario centrale e si aprivano tutte le finestre, e il califfo si sedeva sul suo grande divano foderato di seta, di velluto e d'oro, poi ordinava alle sue cantanti di cantare e ai suonatori dei vari strumenti di allietarlo con la loro musica ed è così che nella calma delle notti e nel dolce tepore dell'aria profumata dai fiori del giardino che al califfo si apriva il cuore, nella città di Baghdad. Il califfo che amava Ishak di grandissimo amore gli aveva dato come dimora il più bello e il più raffinato dei suoi palazzi. E là Ishak aveva come compito e missione quella di istruire nell'arte del canto e nell'armonia le fanciulle più dotate fra quelle che si acquistavano nel suk delle schiave e sui mercati di tutto il regno per l'harem del califfo. E quando una di esse si distingueva fra le compagne e le superava nell'arte del canto, del liuto e della chitarra, Ishak la conduceva dal califfo e la faceva cantare e suonare davanti a lui. E se piaceva al califfo, la si faceva immediatamente entrare nel suo harem [3] .
Queste descrizioni, che potrebbero forse apparire un po' troppo fantastiche, sono in realtà avvalorate dai resoconti degli ambasciatori inviati a Baghdad per concludere armistizi o per missioni diplomatiche. Basti citare la cronaca del monaco di San Gallo sui doni recati a Carlo Magno dai due dignitari musulmani appartenenti alla corte di Harûn al-Rashîd e dell'emiro di Kairuan, Ibrahim b. Aghlab: scimmie, balsami, unguenti, profumi, spezie e medicinali di ogni sorta "in quantità tale che pareva avessero svuotato sia l'Oriente che l'Occidente", oppure i racconti negli Annales Regni Francorum sulla seconda ambasceria inviata nell'802 che recò in dono a Carlo Magno una tenda di lino di straordinaria bellezza, pezze di seta colorata, due candelabri di bronzo dorato e un orologio "che lasciava stupefatti tutti coloro che lo vedevano". Pare si trattasse di una clessidra che ad ogni ora, al suono di un campanello, lasciava cadere in una vaschetta palline colorate, mentre a mezzogiorno dodici cavalieri si affacciavano da altrettante finestrelle. Si ricordano infine i resoconti, stilati nel secolo successivo dai bizantini Rhadinos e Toxaras mandati dall'imperatore di Bisanzio per riscattare i prigionieri greci. Se pure ammantati di leggenda questi aneddoti riflettono l'apertura degli Abbasidi verso gli orizzonti culturali e intellettuali dei paesi conquistati, che erano invece stati un po' trascurati in precedenza.
Sotto l'influsso delle scuole nestoriane di Edessa e di Nisibe e dell'accademia di Gundeshapur, dove si traducevano opere greche di teologia, filosofia, medicina, astronomia, matematica e agricoltura, il califfo Harûn ospita a Baghdad gli intellettuali, transfughi dall'oriente e dall'occidente, e incoraggia l'opera dei traduttori e la raccolta di trattati greci e indiani che arricchiscano le biblioteche. Sotto il suo regno viene tradotta l'opera indiana di astronomia i Siddharta, considerata importante per i risvolti che ha sul culto religioso (basti pensare all'orientamento verso la Mecca, alla scansione delle ore di preghiera, alla determinazione del mese del digiuno,). segue poco dopo la traduzione degli Elementi di Euclide, poiché gli astronomi arabi si accorgono della carenza che hanno di conoscenze matematiche e soprattutto di geometria per capire a fondo l'astronomia.
Il califfo al-Ma'mûn, figlio di Harûn, prosegue nell'iniziativa avviata dal padre e in seguito ad un sogno in cui gli era apparso Aristotele, invia una missione all'imperatore di Bisanzio con l'incarico di portargli i manoscritti greci conservati nei monasteri. Già al-Mansûr aveva chiesto ai bizantini dei libri come indennità o bottino di guerra e in particolare aveva preteso i trattati di matematica di Euclide. Verso l'830 al-Ma'mûn fonda a Baghdad la "casa della saggezza", in arabo Bayt al-Hikma, dotata di una ricchissima biblioteca, paragonabile a quella del museo di Alessandria, dove dimorano studiosi, scienziati e molti traduttori. Questi ultimi hanno il compito di volgere dal greco i testi classici scientifici e filosofici. La traduzione avveniva di solito dapprima in siriaco, poi in arabo. Ciò dipendeva dal fatto che era necessaria allo scopo non solo una buona cultura di base, ma anche la conoscenza del greco, noto soprattutto nelle comunità religiose siriache. I siriaci cristiani infatti, fin dai tempi della loro conversione al cristianesimo, nutrivano un grande interesse per la cultura greca, in particolare per le opere filosofiche e scientifiche. Essi studiano i testi di Aristotele, di Ippocrate di Cos e di Galeno, e quando i califfi si trasferiscono a Baghdad e hanno bisogno di cure mediche a causa dei disturbi derivanti dal mutato regime di vita, sono curati dai medici siriaci, molto più preparati dei beduini arabi. Il medico di Harûn, Gibril, è il nipote di uno degli insegnanti di medicina di Gundeshapur, il medico Ibn Bakhtyashu, e curerà l'edizione in siriaco del Kunnash, un'opera ispirata agli studi di Ippocrate, di Galeno e di Paolo di Egina, che avrà notevole fortuna anche in occidente nella scuola di Salerno. La fama dei dottori e degli scienziati siriaci si diffonde in breve nel mondo islamico e si trasmette di riflesso anche ai testi classici dai quali provenivano le loro conoscenze. Iniziano così le prime traduzioni degli scritti di Ippocrate e di Galeno, per passare poi a quelli di Aristotele e di altri autori classici. Si vengono a poco a poco a creare delle vere e proprie scuole di traduttori e di studiosi che si trasmettono di padre in figlio. All'epoca di Harûn si distinguono per i lavori scientifici Hunayn ibn Ishaq con il figlio Yakub e il nipote Hubayas, cristiani nestoriani islamizzati, e i tre figli di Musa ibn Shakir, il primo esperto astronomo, l'altro abile geometra e il terzo esperto di meccanica, che lasciano un trattato poi tradotto in latino col titolo Liber trium fratrum de geometria.
Anche le esigenze di tipo istituzionale e amministrativo, conseguenti all'estensione del vasto impero arabo, contribuiscono al proliferare delle traduzioni e allo sviluppo della matematica. Dai popoli conquistati vengono riprese sia le regole di governo che le strutture organizzative e di amministrazione, ma i califfi che colgono pure l'importanza di una forza di coesione e di unità dello stato pretendono che i registri si tengano in arabo. Così, a poco a poco, la lingua araba diviene l'elemento unificatore dell'immenso dominio, sia dal punto di vista politico, che culturale.
L'epoca di più intense traduzioni per la matematica è il IX secolo, che vede le versioni delle principali opere dell'antichità classica, come pure di quelle dell'antichità tarda. Di Euclide sono tradotti gli Elementi e i Data, come pure altri scritti di ottica e di meccanica; di Archimede l'intera produzione, di Apollonio le Coniche e l'opera De sectione rationis, andata perduta in greco. E non sono dimenticati neppure autori e commentatori del periodo tardo ellenistico come Pappo, Diofanto, il neo-pitagorico Nicomaco di Gerasa ed Erone di Alessandria. Di una stessa opera inoltre si trovano anche più traduzioni e varie revisioni. Esse hanno particolare importanza dal punto di vista storico sia perché diedero impulso a far proseguire, presso gli arabi, un'attività matematica già esistente, sia anche perché costituirono il tramite attraverso il quale le opere classiche greche vennero conosciute in occidente. Gli Elementi di Euclide, ad esempio, penetrano per la prima volta in Europa nel 1142 da una versione latina, fatta da Adelardo di Bath, da un manoscritto arabo, e i tre ultimi libri delle Coniche di Apollonio, perduti nell'originale greco, ci sono pervenuti solo grazie a una traduzione araba. Addirittura le rilegature di molti volumi manoscritti del periodo medioevale, decorate con fregi in puro stile arabo, testimoniano questo passaggio. Alle traduzioni si deve però anche guardare con spirito critico poiché il loro scopo non era quello di essere fedeli all'originale, quanto piuttosto di diffondere le conoscenze, arricchendole di commenti, osservazioni e interpretazioni personali originali. L'Arithmetica di Diofanto, ad esempio, appare nelle versioni di Qustâ ibn Lûqâ e di Abu l-Wafâ', con uno stile ed un lessico algebrizzati, che rivelano chiaramente l'influenza esercitata su questi, dagli algebristi islamici del IX secolo. Gli stessi titoli Arte dell'Algebra e Trattato d'Algebra, dati da questi traduttori all'Arithmetica di Diofanto, rispecchiano chiaramente questa influenza.
Nei secoli XI e XII il fenomeno delle traduzioni si ripete nelle città della Spagna conquistate dalla dinastia degli Omayyadi e studiosi da tutta l'Europa si recheranno nei centri di Cordova, Segovia, Toledo, Saragozza e Barcellona alla ricerca di manoscritti, da portare in patria, delle opere classiche, di cui fino ad allora conoscevano solo degli estratti. 2. Un ponte culturale attraverso il Mediterraneo.
Nella storia della trasmissione del sapere scientifico arabo all'Occidente si possono individuare tre vie principali: quella che fa affluire soprattutto le opere di medicina che parte dall'Ifriqiya e raggiunge dapprima la Sicilia e poi la scuola di Salerno; quella aperta ad ogni ramo dello scibile che passa attraverso la Sicilia e l'Italia meridionale e si sviluppa grazie alla tolleranza e all'interesse culturale dei re normanni, degli Hohenstaufen e degli Angioini, e infine quella che attraversa la Spagna e il Portogallo e impianta nei centri e nelle scuole di traduzione veri focolai di cultura.
Per quanto riguarda la prima si narra che libri di medicina araba furono portati in Italia e tradotti da un medico e mercante di Cartagine che si convertì prendendo il nome di Costantino e che da quelle opere la scuola di Salerno abbia ricevuto un apporto così significativo da divenire famosa in tutta Europa.
In Italia meridionale è Federico II di Svevia, "stupor mundi", a catturare gli intellettuali più rinomati. Michele Scoto, illustre traduttore di Toledo, soggiorna a lungo alla sua corte e per lui redige un sommario in latino del De animalibus di Ibn Sina, più noto come Avicenna, e di vari altri testi. Teodoro di Antiochia, forse inviato a Federico dal sultano d'Egitto nel 1236, è per un certo periodo suo segretario e astrologo personale e cura versioni latine del saggio Secretum secretorum dello pseudo-Aristotele e di trattati di falconeria e sui cani, composti dal falconiere arabo di Federico, tal Moamyn. Il matematico Leonardo Fibonacci ha stretti contatti con la corte sveva, composta di "notari e protonotari", "magistri" e "philosophi", e dedica ai personaggi della corte imperiale la maggior parte dei suoi scritti. a Michele Scoto è indirizzato il Liber abbaci (1202; 1228), a maestro Teodoro l'Epistola e a maestro Dominicus, forse Dominicus Hispanus, astronomo e astrologo suo contemporaneo, la Practica geometriae (1220) e il Liber quadratorum (1225). Inoltre Leonardo cita spesso, nel corso delle sue opere, studiosi e scienziati incontrati al cospetto di Federico che amava intrattenersi in discussioni e assistere a sfide fra intellettuali. A Teodoro, a maestro Domenico e a Giovanni da Palermo, filosofo dell'imperatore, Leonardo offre la soluzione di problemi di aritmetica e di teoria dei numeri, ad esempio nel Flos e nel Liber quadratorum. Le prefazioni dei suoi scritti sono ricche di particolari interessanti sulla sua formazione culturale nei paesi islamici e il contenuto dei suoi trattati è denso di contributi originali che vanno molto al di là delle conoscenze aritmetiche e algebriche dei greci. Se pure è oggi universalmente riconosciuto il debito culturale che la matematica medioevale e del Rinascimento italiano deve a Leonardo Fibonacci, resta tuttavia ancora in ombra l'ambiente intellettuale e scientifico della corte sveva e di quella angioina. Le cronache dell'epoca ascrivono a Federico II la fondazione dell'Università di Napoli nel 1224 e la creazione nell'Italia meridionale di un centro culturale di grande avanguardia. Secondo lo storico arabo Ibn Wasil fra il 1230 e il 1240 questioni difficili di matematica e di filosofia, fra cui alcune sulla creazione del mondo e sull'immortalità dell'anima, sono poste da Federico a dotti arabi. Lo stesso imperatore scrive un'opera, il De arte venandi cum avibus, che avrà grande diffusione. Pare che anche suo figlio Manfredi fosse dedito agli studi scientifici e che avesse aggiunto alcuni commenti all'opera paterna. Giamàl ad Din che lo incontrò a Barletta riferisce che egli conosceva a memoria gli Elementi di Euclide. Di certo anch'egli amava circondarsi di studiosi e scienziati arabi e per questo fu bollato dal papa come "signore dei saraceni". Carlo d'Angiò che sconfigge gli Hohenstaufen è noto invece per aver fatto tradurre l'enciclopedia medica di Razi e aver proseguito e consolidato in Sicilia un vero e proprio centro di traduzioni in latino, arabo e italiano che permetterà il diffondersi delle opere greche e orientali.
È però soprattutto in Spagna e in Portogallo che si compie il maggior numero di traduzioni e si concentrano gli sforzi di studiosi cristiani, ebrei e musulmani di tutte le nazionalità. I re e i principi, sia musulmani che cristiani, che governano piccoli o grandi territori, incoraggiano infatti gli studi scientifici e favoriscono le traduzioni dall'arabo. Si assiste alla nascita e al proliferare dei centri di traduzioni nelle città di Cordova, Siviglia, Malaga, Granada, Maiorca, Almeria, Segovia, Toledo, Saragozza, Barcellona, Lisbona e Coimbra. Fra i primi studiosi che accorrono in Spagna per apprendere nuove conoscenze scientifiche, o per fornire versioni in latino, si ricordano il filosofo e matematico Gerbert d'Aurillac, che nel 999 diverrà papa Silvestro II, che cerca di diffondere il sistema di numerazione posizionale, gli inglesi Adelardo di Bath e Robert di Chester che traducono le opere di al-Khwârizmî e gli Elementi di Euclide, e Platone da Tivoli, traduttore del Trattato di astronomia di al-Battani, dell'Opus quadripartitum di Tolomeo, dell'Algebra di Abraham bar Hiyya e del De mensura circuli di Archimede. Gherardo da Cremona si dedica invece all'edizione in latino dell'Almagesto di Tolomeo e di moltissime altre opere di Euclide, Archimede, al-Kindî, Ippocrate, Razi, Ibn Sina, Tolomeo, per un totale di ben ottantasette titoli, al punto da far pensare che dirigesse una scuola di traduzioni. Non mancano pure versioni di opere classiche in lingua ebraica, curate da studiosi ebrei, come i Tibbon, che per generazioni si tramandano questo mestiere. Si ritrovano membri della famiglia operare a Granada, Lunel, Marsiglia e Montpellier; fra i più noti ricordiamo Mosé Tibbon che redige una trentina di traduzioni e Profazio che a Marsiglia cura un Almanacco di astronomia che resterà in uso fino al XVI secolo. Anche in Spagna e in Portogallo principi e regnanti amano circondarsi di intellettuali e talvolta coltivano essi stessi gli studi scientifici. Il più celebre è senza dubbio Alfonso, detto "il saggio", che nel XIII secolo redige le famose Tavole alfonsine, utilizzate per tutto il Rinascimento dagli astronomi e dai navigatori. Suo nipote Dionigi, che regna in Portogallo, fonda l'Università di Lisbona, che sarà poi trasferita a Coimbra, e si prodiga a far tradurre in portoghese opere arabe, latine e spagnole. 3. Al-Khwârizmî, padre dell'algebra.Nell'VIII secolo, presso le popolazioni dominate dagli arabi, si assiste ad un progressivo interesse per l'aritmetica e per i sistemi di numerazione. Inizialmente non vi erano simboli appositi per i numeri che erano semplicemente espressi a parole. In seguito alle conquiste, dovendosi tenere i registri amministrativi in arabo, si pose anche il problema di come scrivere i numeri e questo venne risolto in un primo tempo adottando, presso i singoli popoli, i loro rispettivi simboli (greci o siriaci in Siria, copti in Egitto, ecc.), e a partire dall'VIII secolo usando le lettere dell'alfabeto e la numerazione in base dieci. Era un sistema additivo, non posizionale e ancora privo del simbolo per lo zero. Non appena iniziano gli interessi per l'astronomia, gli arabi si accostano ai testi indiani, dai quali apprendono il sistema di numerazione posizionale in base 10 e il simbolo dello zero. Ne comprendono subito l'importanza e l'utilità e iniziano ad elaborare un'aritmetica decimale che si rivela nella pratica quotidiana molto semplice e efficace.
Il matematico cui si deve la prima esposizione del sistema di numerazione indiano e delle operazioni effettuate in questo sistema è il persiano Muhammad ibn Musa al-Khwârizmî (780-850 circa), che opera a Baghdad, nella casa della saggezza. Della sua vita non si conosce quasi nulla, tranne forse il fatto che, come indica il nome, egli era originario di Khwâ rizm (oggi Khiva), città del Turkestan, entrata a far parte del dominio arabo nel 712. Di al-Khwârizmî si sono conservate cinque opere, in parte rimaneggiate, di aritmetica, algebra, astronomia, geografia e sul calendario. In particolare le due opere sull'aritmetica e sull'algebra sono diventate famose e hanno esercitato una notevole influenza sullo sviluppo della matematica medioevale in occidente, oltre che sugli studiosi arabi successivi.
Il libro di aritmetica ci è pervenuto in varie versioni latine del XII e XIII secolo, ma non nell'originale arabo. Una di queste versioni, conservata in un unico manoscritto a Cambridge, fu pubblicata a Roma nel 1857 dal principe Baldassarre Boncompagni, col titolo Algoritmi de numero indorum, e successivamente, da cura Kurt Vogel, nel saggio Mohammed ibn Musa Alchwarizm's Algorithmus (Aalen 1963) e da A. P. Juskevič nel suo Über ein Werk des Abû'Abdallah Muhammad ibn Mûs â al-Huwârizmî al Mağusî zur Arithmetik der Inder (Leipzig 1964). Un'edizione critica delle varie traduzioni latine, con versione francese a fronte, è dovuta ad André Allard, Le calcul indien (Algorismus), ParisèNamur 1992.
Il termine algoritmus che compare nel titolo deriva dal nome di al-Khwârizmî, latinizzato prima in algorismus e poi trasformato nella forma attuale a causa di una falsa etimologia, e ha finito per designare fino al XVII secolo il sistema di numerazione posizionale decimale e successivamente un procedimento sistematico di calcolo. Forse questo fu uno dei motivi per cui si è diffusa nei secoli l'errata convinzione che il sistema di numerazione oggi in uso sia di origine araba, anziché indiana.
Il trattato di algebra, composto da al-Khwârizmî fra l'813 e l'833, si può invece considerare l'atto di nascita di questa disciplina. Il senso di questa affermazione sarà più chiaro in seguito, dal confronto fra i metodi algebrici utilizzati nelle civiltà arcaiche (egizia, sumera, babilonese) e in quella greca, con quelli ideati dai matematici arabo-islamici.
L'opera di al-Khwârizmî si è conservata in un manoscritto arabo del 1342, attualmente ad Oxford, e in alcune versioni latine, di cui le più famose sono quella di Roberto di Chester, redatta nel 1145 a Segovia e pubblicata, con traduzione e commento inglese, da L. C. Karpinski nel 1915, e quella di Gherardo da Cremona, scritta a Toledo nel XII secolo. Il testo arabo si intitola Al-Kit âb al-muktasar fi hîs âb al-jabr wa'l-muq âbala, cioè Breve opera sul calcolo di spostare e raccogliere[4]. Si compone di un breve capitolo introduttivo sui contratti commerciali effettuati con l'aiuto della regola del tre, secondo l'algoritmo trasmesso dagli indiani; di una parte propriamente algebrica; di un breve capitolo di geometria relativo al calcolo di aree e volumi e di una vasta parte dedicata ai problemi di divisione di eredità, particolarmente complessi nel diritto musulmano, sancito dal Corano. I manoscritti latini a noi pervenuti non contengono le ultime due parti e presentano alcune varianti rispetto all'originale arabo.
Lo scopo principale di al-Khwârizmî è di scrivere un manuale utile alla risoluzione dei problemi della vita quotidiana, ma l'opera avrà una diffusione e un'influenza ben più ampie di ciò che l'autore si sarebbe probabilmente aspettato.
Fra i principali concetti utilizzati si trova la nozione di equazione di primo e di secondo grado, a coefficienti numerici, una caratteristica nuova rispetto alla matematica precedente. Non si tratta più, come presso gli Egizi, i Babilonesi e i Greci, di risolvere problemi aritmetici e geometrici, che si possono esprimere in termini di equazioni, ma al contrario si parte dalle equazioni e i problemi vengono dopo. Il fatto che al-Khwârizmî si limiti a considerare equazioni di primo e secondo grado è legato all'esigenza di avere una soluzione per radicali, cui segue la verifica geometrica della correttezza di tale soluzione. L'algebra di al-Khwârizmî è interamente retorica: egli non usa alcun simbolo e le sue spiegazioni sono piuttosto prolisse. Nella storia dell'algebra si distinguono convenzionalmente tre tipologie: l'algebra retorica, che si serve unicamente di parole, anche nelle dimostrazioni matematiche più complesse; l'algebra sincopata, che utilizza sia parole che simboli e fu introdotta per la prima volta da Diofanto nell'Arithmetica e l'algebra simbolica, che procede con simboli e sarà caratteristica dell'epoca moderna, da François Viète in poi.
La nozione di base è, come si è detto, quella di equazione a coefficienti numerici. I termini dell'equazione sono indicati con nomi diversi: i numeri con dirhâm, probabilmente dal nome dell'unità monetaria greca dracma, l'incognita è designata con say' (letteralmente cosa) o gizr (radice), dal termine arabo per la radice di una pianta, e viene usato anche per la radice quadrata, e infine mâl (bene, possedimento) denota il quadrato dell'incognita. In latino questi termini sono tradotti rispettivamente con res, radix e census, e saranno utilizzati con gli stessi significati nella matematica medievale dell'occidente.
All'inizio della sua opera al-Khwârizmî distingue sei tipi canonici o normali di equazione, che egli presenta semplicemente a parole, come nello schema riportato sotto (a sinistra), che corrisponde, in notazioni moderne, alle equazioni (scritte a destra) in cui a, b, c indicano numeri interi positivi:
1. I quadrati sono uguali alle radici ax2=bx 2. I quadrati sono uguali a un numero ax2=c 3. Le radici sono uguali a un numero ax=c 4. I quadrati e le radici sono uguali a un numero ax2+bx=c 5. I quadrati e i numeri sono uguali alle radici ax2+c=bx 6. Le radici e i numeri sono uguali ai quadrati bx+c=ax2.
La ragione di questa molteplicità forme è che i coefficienti sono sempre positivi e i termini appaiono come grandezze additive. Ogni equazione viene sistematicamente ricondotta ad uno dei tipi indicati e per la sua risoluzione si impiegano due operazioni fondamentali: l'al-jabr (letteralmente: completamento, riempimento; in latino restauratio), che corrisponde ad eliminare i termini negativi, aggiungendo termini uguali nei due membri, e l'al-muqâbala (messa in opposizione, bilanciamento; in latino oppositio) che consente di addizionare i termini simili nei due membri. Inoltre il coefficiente del termine di secondo grado viene spesso ridotto all'unità con l'operazione al-hatt che è applicata in particolare nella risoluzione delle equazioni dei tipi 4 e 5. Ad esempio l'equazione
x2+(10-x)=58
cioè
2x2+100-20x=58
con l'al-jabr diventa
2x2+100=20x+58
e con l'al-muqâbala,
2x2+42=20x
e infine, tramite l'al-hatt si ottiene
x 2+21=10x
Le locuzioni al-jabr, da cui è
derivata la parola algebra, e al-muqâbala caratterizzeranno
i titoli delle opere successive dei matematici islamici sull'algebra e il loro
significato si estenderà a indicare genericamente i testi sulla teoria delle
equazioni. Esse faranno la loro apparizione in Occidente a partire da Fibonacci
e fino a tutto il XV secolo, dapprima nei manuali in uso nelle scuole d'abaco e
poi nei volumi a stampa, nel significato esteso di teoria delle equazioni.
Mentre il termine algebra giungerà se pure in un significato sempre più esteso,
fino ai giorni nostri, la locuzione al-muqâbala cadrà in disuso
dopo il XV secolo. Nella risoluzione delle prime tre forme canoniche di equazione si notano
alcune particolarità: innanzitutto il fatto che al-Khwârizmî tratti
l'equazione ax2=bx esattamente come l'equazione ax=b, senza
considerare la soluzione x=0. Questa esclusione, dovuta forse al fatto
che essa non aveva interesse nei problemi concreti, persisterà a lungo nella
storia dell'algebra, almeno fino al XVII secolo. Inoltre egli fornisce sempre non solo la radice dell'equazione considerata,
ma anche il suo quadrato. Per esempio per il primo tipo di equazione x2=5x , egli afferma: "La radice del quadrato è 5 e 25
costituisce il suo quadrato". E conserva lo stesso atteggiamento anche per le
equazioni lineari, ad esempio per ½x=10 egli ottiene sia x=20, che x2=400. Uno dei punti più importanti e innovativi della trattazione di
al-Khwârizmî è la ricerca della soluzione algoritmica, cioè il fatto che per le equazioni di secondo grado la
soluzione si può esprimere per radicali. L'autore infatti dapprima enuncia, a
parole, la regola risolutiva sotto forma di "precetto" o di "ricetta di
calcolo" da seguire passo a passo, e poi ne fornisce la dimostrazione
geometrica, sfruttando le proprietà dimostrate per esempio negli Elementi di
Euclide. È vero che già prima degli arabi si sapeva calcolare la soluzione di
equazioni di primo e di secondo grado, ma non si era mai sentita l'esigenza di
costruire una teoria apposita per lo studio delle equazioni, considerate per i
loro legami con problemi specifici. I greci
cercavano concretamente una o due incognite ben distinte e in un'equazione
vedevano semplicemente una relazione fra queste grandezze concrete. In questo
modo l'incognita risultava avere un solo valore, salvo nel caso in cui le
ipotesi non fossero sufficienti, oppure la stessa relazione potesse adattarsi a
due casi diversi. Al-Khwârizmî invece studia l'equazione come oggetto
matematico in sé, ne cura la classificazione, il metodo risolutivo e la
discussione di ogni caso. Non tiene però mai conto delle soluzioni negative,
forse perché restava comunque un forte legame con le grandezze geometriche
(sempre positive), ravvisabile nelle verifiche delle regole risolutive, e un
ancoraggio ai problemi concreti della vita quotidiana. Peraltro questo
atteggiamento rimarrà a lungo immutato anche negli algebristi del tardo
Medioevo e del Rinascimento e non verrà messo in discussione se non nel XVII
secolo. Ancora nella Géométrie (1637) di René Descartes troviamo esempi
di equazioni quadratiche di cui esplicitamente è data solo la radice positiva. Esaminiamo ora in dettaglio, su alcuni esempi [5] tratti dall'opera di al-Khwârizmî la
risoluzione delle equazioni complete in secondo grado dei tipi 4, 5 e 6,
elencati sopra. L'autore inizia studiando l'equazione x +10x=39 , che rappresenta il tipo "Radici e quadrati uguali a numeri" e
afferma: .....La soluzione è: dividi a metà il numero
delle radici, che in questo caso dà 5. Moltiplica questo per se
stesso: il prodotto è 25. Aggiungilo a 39, ottenendo 64. Ora prendi la radice di
questo, che è 8 e sottrai da questo la metà delle radici, 5; il resto è 3. Questa è la radice del
quadrato che cercavi e il suo quadrato è 9. In notazioni moderne l'equazione si può scrivere come x2+px=q
e la sua soluzione è
. Alle regole risolutive con i radicali, come si è già detto, al-Khwârizmî
fa seguire la dimostrazione geometrica che in questo caso presenta due diverse
costruzioni, corrispondenti al procedimento noto come "completamento del
quadrato". Esse ricordano quelle dell'algebra geometrica dei Greci e in
particolare la seconda rivela una certa analogia con la proposizione II.11
degli Elementi di Euclide. La prima verifica di al-Khwârizmî consiste nel costruire sui
lati del quadrato
quattro
rettangoli di altezza 10/4 e nel completare la figura così ottenuta con quattro
quadratini di lato 10/4. Il quadrato che ne risulta ha lato x+2×10/4=x+5,
mentre la sua area, che è la somma delle aree delle parti che lo compongono,
vale
< . Sapendo poi che x2 +10x=39, l'area del
quadrato sarà 39+25=64 e dunque il suo
lato x+5 vale 8, da cui si
deduce x=3. Queste
trasformazioni geometriche corrispondono alle seguenti trasformazioni
algebriche su x2+px=q: , da cui la regola fornita all'inizio da
al-Khwârizmî. La seconda verifica
geometrica è presentata solo in figura, senza spiegazioni, forse perché è
ottenuta anch'essa con il "completamento del quadrato". A x2
si affiancano qui due rettangoli 5x e si completa col quadrato 52.
La trasformazione cui corrisponde è dunque Nel caso dell'equazione del tipo 5, al-Khwârizmî sa che si
possono avere due radici oppure una sola (doppia) o nessuna (quando le radici
non sono reali). Per mostrare la completezza della sua trattazione riportiamo
per esteso il ragionamento effettuato relativamente al tipo "Quadrati
e numeri uguali a radici", cioè all'equazione x2+21=10x. Il
seguente esempio è una illustrazione di questo tipo: un quadrato e 21 unità
uguali a 10 radici. La regola risolutiva è la seguente: dividi per 2 le radici,
ottieni 5. Moltiplica 5 per se stesso, hai 25. Sottrai 21 che è sommato al
quadrato, resta 4. Estrai la radice, che dà 2 e sottrai questo dalla metà della
radice, cioè da 5, resta 3. Questa é la radice del quadrato che cerchi e il suo
quadrato è 9. Se
lo desideri, aggiungi quella alla metà della radice. Ottieni 7, che è la radice
del quadrato che cerchi e il cui quadrato è 49. Sono così presentate le due soluzioni positive
dell'equazione, seguite dal commento: Se tu affronti un problema
che si riconduce a questo tipo di equazione, verifica l'esattezza della
soluzione con l'addizione, come si è detto. Se non è possibile risolverlo con
l'addizione, otterrai certamente il risultato con la sottrazione. Questo è il solo
tipo in cui ci si serve dell'addizione e della sottrazione, cosa che non trovi
nei tipi precedenti. Devi inoltre sapere che se in questo caso tu dividi a metà
la radice e la moltiplichi per se stessa e il prodotto risulta minore del
numero che è aggiunto al quadrato, allora il problema è impossibile. Se invece
risulta uguale al numero, ne segue che la radice del quadrato sarà uguale alla
metà delle radici che sono col quadrato, senza che si tolga o si aggiunga
qualcosa. Gli ultimi due casi
corrispondono ad avere discriminante negativo (p/2)2 < q,
dunque nessuna soluzione in campo reale, e discriminante nullo, vale a dire due
soluzioni coincidenti (x=p/2). La dimostrazione
geometrica di al-Khwârizmî, distingue due possibilità, corrispondenti
alle due soluzioni. Della prima è data una costruzione dettagliata, mentre per
la seconda si hanno pochi cenni nel testo arabo e alcune figure nelle versioni
latine che possono suggerire il ragionamento seguito. Ecco come viene presentata la prima costruzione: il rettangolo GCDE di
lati GC=p e CD=x è formato dal quadrato ABCD=x2
e dal rettangolo GBAE=(pèx)x =q. Se si considera x
<p/2, cosa che al-Khwârizmî non dice esplicitamente,
si può innalzare in F, punto medio di GC, la perpendicolare FH a GC e prolungare
FH del segmento HK=AH=p/2- x. Si costruiscono quindi i quadrati GFKM=(p/2)2
e IHKL=(p/2- x )2. I
rettangoli EILM e FBAH risultano essere congruenti, per cui IHKL può
essere visto come differenza fra GFKM e GBAE, cioè (p/2- x )2=(p/2)2- q. Si ha dunque AD=HDèAH=
. Per la seconda
costruzione geometrica al-Khwârizmî dice solo che si ottiene la
maggiore delle radici aggiungendo DH ad AH. È tuttavia molto probabile
che egli ne avesse la dimostrazione, dal momento che nelle versioni latine si
trovano le figure relative. Supponendo x>p/2 il punto F, medio
di GC=p, cade all'interno di BC=x. Se si prende allora
AB=BC, il quadrato BFHI, avendo il lato BF=xèp/2 è uguale
alla differenza fra il quadrato GFKM=(p/2)2 e
lo gnomone composto dalla somma delle aree GBLM+IHKL = GBAE = q. Così si
ottiene BF=
e x=CF+BF=
. Al-Khwârizmî
presenta poi, come esempio del tipo 6, l'equazione 3x+4=x2 di cui considera solo la soluzione positiva e non quella negativa. La
regola, espressa in notazioni moderne, relativamente all'equazione px+q=x2,
corrisponde alla soluzione
. LMCG=TKHG+q=
e CG =
, da cui CD=x=CG+GD=
Dopo aver discusso i sei tipi canonici di
equazioni di primo e secondo grado, al-Khwârizmî espone alcune regole
fondamentali per operare sulle espressioni algebriche. Ad esempio illustra come
effettuare la moltiplicazione di monomi e di binomi, come ridurre i termini
simili in somme e differenze di monomi e le trasformazioni del tipo
o viceversa. Trattando addizioni e sottrazioni di segmenti,
al-Khwârizmî sottolinea l'esigenza di rispettare sempre l'omogeneità
dimensionale; insiste cioè sul fatto che non si può operare su grandezze che
non abbiano le stesse dimensioni. Inoltre egli utilizza pochissimo i numeri
irrazionali, che chiama gizr asamm (letteralmente radice sorda).
Gherardo da Cremona, nel XII secolo, traduce il termine asamm col
vocabolo latino surdus e forse è per questo motivo che fino al XVIII
secolo i numeri irrazionali erano anche detti numeri surdi. La teoria algebrica elaborata da
al-Khwârizmî viene completata ed ampliata dall'egiziano Abû
Kâmil (850-930) nel suo Libro sull'al-jabr e l'almuqâbala, scritto
fra la fine del IX e l'inizio del X secolo. Questo trattato, che
sostanzialmente contiene la teoria delle equazioni di primo e secondo grado,
ebbe numerosi lettori e commentatori, fra i quali Leonardo Fibonacci, il più
importante matematico del medioevo
in Occidente, che nel Liber abaci (1202) riporta parte dei problemi qui
affrontati. Fra le caratteristiche più salienti della trattazione di Abû
Kâmil si nota un elevato livello teorico e la tendenza
all'aritmetizzazione. Abû Kâmil considera ad esempio anche potenze
dell'incognita superiori a due e impiega le locuzioni cubo per indicare x3
e, seguendo il principio additivo, quadrato-quadrato per x4,
quadrato-quadrato-cosa per x5 e così via. Egli utilizza più ampiamente e con maggior
sicurezza, rispetto ad al-Khwârizmî, sia operazioni di calcolo
algebrico, che trasformazioni complicate sulle espressioni irrazionali, del
tipo
. Inoltre enuncia regole precise per la determinazione immediata di x2,
sotto forma di radicali, per le equazioni di secondo grado dei tipi 4, 5, 6,
studiate da al-Khwârizmî, per le quali fornisce le seguenti
espressioni:
. Ogni regola è dimostrata geometricamente, ma, a differenza di
al-Khwârizmî, si prescinde dall'omogeneità dimensionale, per cui
segmenti e superfici, possono indicare sia numeri, che incognite di primo o di
secondo grado. All'occorrenza Abû Kâmil fa uso di più incognite, che
chiama con nomi diversi, e, per semplificare la risoluzione di un problema,
sceglie talvolta una incognita ausiliaria. Ad esempio, nel problema: Dividere
10 in due parti (x e 10 è x) di modo che
, Abû Kâmil trova dapprima
che, moltiplicata per
diventa
e con l'al-jabr
. Non contento di questa espressione, Abû Kâmil ne trova subito
dopo una più semplice ponendo come incognita (10 è x)/x = y
. Il problema si traduce quindi nell'equazione
, la cui soluzione è
. Partendo poi dall'equazione lineare
Abû Kâmil determina dapprima x con denominatore
irrazionale:
ed elevando poi al quadrato l'equazione in x,
scritta sopra, ottiene
, da cui
, e giunge infine ad un valore dell'incognita senza
irrazionali al denominatore,
. Tra la fine
del X e il XII secolo si assiste ad un notevole sviluppo dell'algebra islamica,
che si articola in due correnti relativamente distinte, l'una di indirizzo
aritmetico-algebrico, l'altra geometrico-algebrico. In esse si fa
tesoro delle innovazioni e dei risultati ottenuti in ciascuna delle singole
discipline a favore dell'altra e viceversa, in un rapporto dialettico molto
fecondo. L'indirizzo aritmetico-algebrico si avvale
da un lato dei contributi e progressi degli studiosi di aritmetica dei secoli
IX-X, dall'altro della traduzione in arabo dell'Arithmetica di
Diofanto nel X secolo da parte di Abûl-Wafâ e di Qustâ
ibn Lûqâ . Fra il 961 e il 976 Abûl-Wafâ scrive il Libro
sull'aritmetica necessaria agli scribi e ai mercanti, in cui riassume e
sviluppa le conoscenze dell'aritmetica araba e la teoria delle frazioni.
Particolarmente potenziati sono in questa epoca pure gli algoritmi per
l'estrazione delle radici quadrate e cubiche. Già al-Khwârizmî, nel
suo trattato di aritmetica, aveva dato, come regola di approssimazione della
radice quadrata del numero
, il valore
. Successivamente al-Uqlîdisî
(morto intorno al 952) fornisce le seguenti approssimazioni
e
. Ulteriori progressi si avranno nei secoli
XI e XII, principalmente ad opera di ibn Labban e del suo allievo al-Nasâwî
che li estendono anche alle radici cubiche. Il primo e principale esponente dell'indirizzo aritmetico-algebrico
è il persiano al-Karajî, vissuto tra la fine del X e l'inizio
dell'XI secolo, che fonda a Baghdad una vera e propria scuola di allievi e
seguaci. Viene perciò spesso citato come al-hisabi, cioè maestro di
aritmetica, per le sue eccezionali doti didattiche. Scrive molte e importanti
opere, di cui si ricordano in particolare il manuale sulla scienza
dell'aritmetica e il vasto trattato di algebra intitolato Al-Fahri dal
soprannome Fachr'al mulk (gloria del regno), dato al vizir Abu Galeb,
cui lo scritto era dedicato. Nella prefazione dell'Al-Fahri al-Karajî dichiara fra
l'altro per la prima volta in modo esplicito qual è lo scopo dell'algebra:
determinare le grandezze incognite mediante quelle note, utilizzando i metodi
più efficaci. Egli espone qui anche lo studio delle potenze dell'incognita e,
seguendo Diofanto, preferisce utilizzare il principio moltiplicativo per
designare le potenze superiori, per cui ad esempio x5=x2
x3 è chiamato quadrato-cubo, x6=x3
x3 cubo-cubo, e così via. Al-Karajî
sottolinea inoltre il legame che esiste fra le potenze successive
dell'incognita, sancito da proporzioni continue che, espresse a parole,
corrispondono in notazioni moderne a 1:x=x:x2=x2:x3=x3:x4=...
e, per le potenze reciproche, a
... Nell'Al-Fahri si riprende sostanzialmente
la trattazione algebrica di Abû Kâmil, integra però sia nella parte
teorica, che in quella dei problemi, dove si sfrutta ampiamente l'eredità
diofantea. In particolare al-Karajî applica le operazioni
aritmetiche ai monomi e poi a quantità composte da monomi, cioè a polinomi.
Fornisce inoltre le formule per il quadrato e per il cubo di un binomio,
presentando cosi i primi elementi di quella che oggi chiamiamo l'algebra dei
polinomi. Uno dei suoi allievi, al-Samaw'al, gli attribuisce per di più
la tabella dei coefficienti di (a + b)n fino a n = 12,
dicendo che la si può prolungare all'infinito se si segue la legge, da noi
nota come triangolo di Tartaglia o di Pascal, per cui
. Relativamente alle teoria delle equazioni, oltre a quanto aveva già
trattato Abû Kâmil, vengono affrontate e risolte equazioni del tipo
ed anche del tipo
Inoltre al-Karajî espone le trasformazioni da
effettuare per eliminare gli irrazionali quadratici che compaiono al
denominatore. Nell'Al-Fahri si trovano
anche proprietà di teoria dei numeri, ad esempio le formule per la somma dei
primi n quadrati e cubi. Quest'ultima, che si può esprimere in notazioni
moderne con
, viene presentata da al-Karajî con una
dimostrazione geometrica semplice ed elegante.
A D B D' C C' B' n2 D' C' B'
essendo
Si costruisca poi lo gnomone
D'C'B'B''C''D'' con B'B''=nè1,
che avrà perciò area (nè1)3. Proseguendo in
modo analogo al-Karajî ottiene alla fine il quadrato di lato 1 e
area 1. Il quadrato ABCD risulta quindi decomposto in aree di gnomoni
successivi più il quadratino 1, per cui vale l'uguaglianza:
Il principale successore di al-Karajî è al-Samaw'al
(XII secolo), figlio di un erudito ebreo, emigrato dal Marocco e stabilitosi a
Baghdad, e di una letterata originaria dell'Iraq. Filosofo, medico e matematico,
al-Samaw'al è pure un profondo conoscitore sia delle opere greche che di
quelle indiane. All'età di soli 19 anni scrive il Libro luminoso
sull'aritmetica in cui sintetizza e raggruppa i risultati ottenuti fino ad
allora, in particolare quelli dovuti ad al-Karajî. è il primo ad esporre sistematicamente
la regola dei segni, cioè le regole da usare con le quantità negative; per
esempio: è(èax2)= ax2 e èaxn
èbxn=è(a+b) xn. Fornisce inoltre la
definizione di potenza nulla xo=1 con x¹ 0 e le operazioni aritmetiche sulle potenze della
stessa base. Per visualizzare queste proprietà, as-Samaw'al
introduce una tabella del tipo seguente: 4 3 2 1 0 1 2 3 4 ... _______________________________________________ ... x4 x3 x2 x 1
... che illustra su
esempi: per moltiplicare x2 per x3 sarà
sufficiente spostarsi di tre colonne verso sinistra, a partire da x2,
trovando così x5. Se invece si ha x2·x-1
ci si dovrà spostare a destra di una colonna, sempre a partire da x2,
ottenendo così x. Le
tabelle sono da lui utilizzate anche per rappresentare un'espressione
polinomiale, mediante la successione dei coefficienti. Tale rappresentazione è
particolarmente utile nella divisione fra polinomi e costituisce un primo passo
verso il simbolismo matematico. Visualizzazioni del tipo indicato si
ritroveranno nel Rinascimento e nel XVII secolo, ad esempio negli scritti di
Michael Stifel, di François Viète o di John Wallis. A proposito della
divisione al-Samaw'al estende alle espressioni polinomiali l'algoritmo
euclideo per la divisione dei numeri interi e continua l'operazione anche con
potenze negative dell'incognita. Ottiene, ad esempio,
e riconosce che, nel
risultato, i coefficienti seguono una particolare legge di formazione:
, ma non precisa che questa legge vale solo per x sufficientemente
grande. Nella sua opera,
inoltre, è presentato un algoritmo per l'estrazione di radici quadrate di
espressioni polinomiali e pare che si debba attribuire ad as-Samaw'al
anche un metodo di approssimazione numerica di un'equazione del tipo
Molti dei risultati e
dei procedimenti escogitati dai matematici della scuola di al-Karajî,
fra la fine del X, l'XI e il XII secolo, sono stati invece attribuiti
ingiustamente al matematico di molto posteriore, al-Kâshî (XV
secolo), che li riprende nella sua opera principale, la Chiave
dell'aritmetica, vera enciclopedia delle conoscenze algebriche degli arabi. La seconda corrente che contribuisce al
rinnovamento dell'algebra islamica nei secoli X, XI e XII, è quella costituita
da quei matematici che cercano di far progredire l'algebra mediante la
geometria. Lo stimolo iniziale è fornito dai problemi geometrici classici o da
problemi astronomici che si traducono in equazioni di terzo grado. Si ricorda
ad esempio il problema della duplicazione del cubo, o quello equivalente
dell'inserzione di due medi proporzionali x e y fra due numeri
dati a e b, cioè
o
e
, da cui si trae l'equazione cubica
oppure Il matematico greco Menecmo nel IV sec. a.C. aveva trovato la soluzione
in modo geometrico, come ascissa del punto di incontro di una parabola ( e di un'iperbole (
. Risolse con questo stratagemma anche il problema della duplicazione del cubo che si
presentava co me un caso particolare del precedente. Si trattava infatti di trovare lo
spigolo di un cubo, il cui volume fosse il doppio del volume di un cubo dato,
cioè di risolvere l'equazione
, cosa che egli ottenne con l'intersezione della parabola
e dell'iperbole . Ancora più
interesse suscita presso gli arabi il problema posto da Archimede nell'opera Sulla
sfera e sul cilindro (II, 4): Dividere una
sfera data in modo tale che il rapporto fra i volumi dei segmenti ottenuti sia
uguale ad un rapporto dato . Se si indica con r il raggio della sfera e
con x < r l'altezza di uno dei
segmenti sferici, l'altro segmento avrà altezza 2r- x³ r . Il volume V1 del segmento di altezza x e quello
V2 dell'altro segmento dovranno dunque stare fra loro nel
rapporto dato K, con K£ 1, cioè V1:V2= K e se V
indica il volume della sfera, si avrà
, da cui e poiché
e ,
si ha , da cui
. Una soluzione di questa equazione era già stata data da Eutocio nel VI
secolo, nel suo commento all'opera di Archimede, con l'intersezione di una
parabola e di un'iperbole, ma questa soluzione non era nota agli arabi, che si
accaniscono nella ricerca. Il primo ad occuparsi del problema e a darvi una
espressione algebrica è al-Mâhâni che non riesce, però, a
costruire la radice dell'equazione. Altri matematici islamici del x secolo, come al-Khâzin
e ibn al-Haytham (965-1093), riprendono la questione e studiano
altri problemi geometrici classici, quali quelli della duplicazione del cubo,
della trisezione dell'angolo, della costruzione dei poligoni regolari di 7 e 9
lati inscritti nel cerchio, cercando di risolverli mediante intersezione di
coniche. Al-Birûnî (973-1048) affronta invece il
problema della trisezione dell'angolo e dell'inscrizione di un ennagono
regolare nel cerchio. Per quest'ultimo giunge all'equazione
in cui x rappresenta
la corda di un arco uguale ai 2/9 della circonferenza. Il gran numero dei problemi che si riconducono ad equazioni di terzo
grado e l'incapacità di risolvere queste equazioni con una formula per radicali
portano all'esigenza di costruire una teoria sistematica generale delle
equazioni di terzo grado, analoga a quella esposta da al-Khwârizmî
per le equazioni di primo e secondo grado. In ciò gli arabi si differenziano
dai greci: mentre questi per ciascun problema escogitavano una
particolare soluzione, gli arabi riducono il problema ad un'equazione algebrica
che risolvono inquadrandola in una teoria generale. Il creatore di questa teoria è Omar ibn Ibrahim al-Khayyâm
(1048-1131), noto universalmente come il poeta persiano dei Rubai'yat
tradotti in inglese e resi famosi da Edward Fitzgerald nel 1859. Nato a
Nishapur, nel Khorassan, Omar al-Khayyâm si dedica alla matematica,
all'astronomia e alla filosofia, operando nelle province orientali dell'impero
selgiuchide e soprattutto all'osservatorio di Samarcanda. Verso il 1074 è
incaricato dal vizir Nizam al-Mulk di collaborare con altri scienziati a una
riforma del calendario e in questo periodo scrive, a Samarcanda, il suo grande
trattato Sulle dimostrazioni dei problemi di al-jabr e al-muqâbala[6] . In esso
al-Khayyâm definisce l'algebra come "teoria delle equazioni", nettamente
distinta dall'aritmetica. Le grandezze incognite possono essere numeri interi o
grandezze geometriche (linee, superfici, volumi) e la risoluzione necessita sia
di soluzioni numeriche, che di verifiche geometriche. Egli riconosce il suo
fallimento nei confronti della soluzione per radicali delle equazioni cubiche e
intuisce felicemente che "Forse uno di quelli che verranno dopo di noi riuscirà
a trovarla." Il trattato di Omar al-Khayyâm presenta una
classificazione delle equazioni di secondo e di terzo grado. Queste ultime, se
si escludono le equazioni che si possono ridurre di grado, si possono
distinguere in tre specie: le binomie, le trinomie e le quadrinomie, per un
totale di 14 tipi. Se indichiamo con a,
b, c delle costanti positive, la prima specie contiene semplicemente
l'equazione binomia , mentre la seconda è formata dalle trinomie dei seguenti
tipi: 1)
senza termine di secondo grado, cioè
2)
senza termine di primo grado, cioè Infine la terza specie è costituita da 3)
equazioni in cui tre termini positivi sono uguali ad un
termine positivo, cioè 4)
equazioni in cui due termini positivi sono uguali a due
termini positivi, cioè Le specie di ciascun
tipo, che differiscono fra loro solo per i segni dei coefficienti, sono
trattate separatamente e per ciascuno è spiegata la scelta delle coniche da
usare. Il metodo è però uniforme, per cui è sufficiente indicare qui un unico
esempio per ogni specie. Omar al-Khayyâm è attento a rispettare
sempre l'omogeneità dimensionale, per cui nel trattare l'equazione del tipo 1, , dapprima la pone sotto la forma , e poi la risolve con l'intersezione di un cerchio e di una
parabola L'ascissa AX del punto P di incontro delle due
curve, diverso dall'origine A delle coordinate, è una soluzione dell'equazione. In modo analogo, per
l'equazione del tipo 2, , si pone , per cui l'equazione diventa e le coniche scelte
sono l'iperbole ( ) e la parabola ( ). L'equazione del tipo
3, è trasformata, ponendo b = p2
e a = p2s, in ed è risolta con
l'intersezione fra il cerchio e l'iperbole . Infine l'equazione del
tipo 4, avendo posto b = p2;
a = p2s , diventa che si può risolvere intersecando il cerchio con l'iperbole Omar al-Khayyâm considera, come i suoi predecessori, soltanto
le soluzioni positive e quindi, trasferendo il discorso ad un sistema di assi
cartesiani, soltanto le intersezioni delle curve nel primo quadrante. Inoltre
fra le curve, privilegia i cerchi, le iperboli equilatere per le quali asintoti
e assi di simmetria sono paralleli agli assi coordinati, e le parabole il cui
asse di simmetria è anche uno degli assi coordinati. Vengono inoltre discusse
le condizioni di esistenza delle radici positive e il numero di queste, ma
nonostante l'analisi sia profonda, ad al-Khayyâm sfugge il caso di tre
soluzioni positive per l'equazione Uno dei continuatori dell'opera di al-Khâyyam è il persiano
Sharaf Al-Din al-Tûsi, che vive alla fine del XII
secolo e riprende la trattazione delle soluzioni geometriche delle equazioni
cubiche, sviluppando notevolmente lo studio delle curve. Alla teoria elaborata
da al-Khayyâm ad esempio egli aggiunge una discussione sistematica
dell'esistenza delle radici positive, legata al ruolo del discriminante. Nel
caso dell'equazione al- Tûsi afferma che
l'esistenza delle radici positive è legata al fatto che sia . Questo discriminante non appare però mai
in una formula risolutiva del tipo di quella fornita da Niccolò Tartaglia e da
Girolamo Cardano nel XVI secolo. Probabilmente fu proprio l'impossibilità
di ottenere una soluzione algebrica diretta dell'equazione cubica a portare il
matematico persiano alla ricerca di soluzioni numeriche approssimate. A queste al-Tûsi giunge
nell'opera intitolata Teoria delle equazioni, che raccoglie l'eredità e
i progressi compiuti precedentemente sia nell'indirizzo aritmetico-algebrico,
sia in quello geometrico-algebrico. Particolare
importanza rivestono, in questo contesto di approssimazioni, gli algoritmi per
l'estrazione delle radici quadrate e cubiche, ottenuti da
al-Khwârizmî e al-Uqlîdisî, e ulteriormente
elaborati e migliorati da ibn-Labban e da al-Nasâwî.
Anche al-Birûnî pare avesse composto un saggio su L'estrazione
delle radici cubiche e di quelle di grado più elevato e pure al-Khayyâm
scrisse su questo argomento, ma purtroppo le loro opere sono andate perdute e
non è perciò possibile stabilire quale influenza abbiano esercitato su al- Tûsi. Vediamo ora in dettaglio il procedimento impiegato dal matematico
persiano nella ricerca della soluzione numerica di un'equazione quadratica del
tipo . L'equazione studiata da al-Tûsi è e il metodo consiste nel ritrovare ogni potenza di N a partire dal
gruppo di termini che derivano dall'elevazione al quadrato dell'incognita e
dalla moltiplicazione per 31 dell'incognita stessa, rappresentata in simboli
moderni da , dove , con a, b, c cifre intere comprese fra 0 e 9. Il
procedimento di al-Tûsi consiste dunque nello scrivere x2
e 31 x in funzione di x1,
x2, x3, ovvero di a, b, c
e di potenze di 10, cioè x2=(x1+x2+x3)2=x12+x22+x32+2x1x2+2x1x3+2x2x3=a2104+2ab
103+(2ac+b2)102+2bc10+c2 31 x = 31 x1
+ 31 x2 + 31 x3 = 31 a 102
+ 31 b 10 + 31 c. In un primo tempo al-Tûsi cerca a, cioè il più grande
intero tale che a2 < 11 e trova a =
3, per cui somma allora tutti i termini che si possono scrivere a
partire da a, annotando in una tabella ciò che resta: N 1 = Nèa 2 104- 31 a l02 N 1 = 112 992- 90 000- 9300 N 1 = 13692. Successivamente cerca b, cioè il più grande intero tale che 2ab < 13, cioè 6b < 13;
trovato b=2, prosegue calcolando N2=N1- 2ab·103-b2·102-
31 b·10 N2=13692- 12000- 400- 620 N2=672. Infine si cerca c,
tale che 2ac < 6. Si ha 6c £ 6, da cui c = 1 e si può scrivere N 3 =N2- 2ac·102- 2bc·10èc2- 31c N3= 672- 600- 40- 1- 31=0. La soluzione, che in questo caso è esatta, avendo
ottenuto zero come resto, è dunque x = 3·102 + 2·10 + 1=321. L'ultimo matematico arabo ad occuparsi di algebra, degno di essere qui
citato, è al-Kâshî, che muore a Samarcanda nel 1429. La
sua opera più celebre è la Chiave dell'aritmetica, composta intorno al
1427, che era destinata non solo ai matematici, ma a tutti gli uomini di
cultura, dai letterati ai mercanti. Essa rappresenta la summa delle
conoscenze scientifiche dell'epoca e avrà una grandissima diffusione sia nei
paesi arabi che in Occidente. Al-Kâshî condensa qui le proprietà e i
metodi dell'aritmetica e dell'algebra elaborati precedentemente, ed espone sia
l'aritmetica col sistema sessagesimale, sia con quello decimale, allo scopo di
mostrare che le operazioni si possono effettuare indifferentemente nell'uno e
nell'altro sistema. Riprende fra l'altro anche il metodo di estrazione delle
radici quadrate e fornisce un valore per p con sedici decimali esatti. A partire dal IX secolo, con la nascita
dell'algebra presso gli arabi, si formano, come si è visto, nuovi rapporti fra
algebra e aritmetica e fra algebra e geometria. L'algebra entra così a poco a
poco nei più disparati settori della matematica e permette importanti sviluppi,
di cui qui ne ricordiamo alcuni. Dalla tradizione della scrittura polinomiale,
con l'uso di tabelle, nasce la teoria delle frazioni decimali, che si fa
risalire, al più tardi, al XII secolo. Anche la teoria dei numeri riceve nuovi
impulsi sia nell'ambito dell'analisi diofantea, con la risoluzione in numeri
razionali di equazioni e sistemi di equazioni, sia nella ricerca di terne pitagoriche,
di numeri primi, di numeri congrui, di numeri amici, di resti quadratici e
nell'ideazione di quadrati magici. Nell'opera di al-Khayyâm
troviamo inoltre la prima teoria delle frazioni continue e nel trattato La
scienza del calcolo del maghrebino Ibn Mun'im del XIII secolo i primi studi
sull'arte combinatoria, applicata sia in campo linguistico che matematico, ad
esempio sulle permutazioni senza ripetizione o con ripetizione di una o più
lettere, e sulle combinazioni. Nella seconda metà del XIII secolo Ibn al-Banna
aggiungerà contributi importanti al calcolo combinatorio con alcune proprietà,
ritrovate poi da Blaise Pascal nel XVII secolo. L 'ambito numerico si amplia: gli irrazionali positivi, a partire da Abû
Kâmil in poi, entrano a far parte dell'algebra e dell'aritmetica, proprio
come i razionali, e fanno il loro ingresso i numeri negativi e i numeri
decimali. Nella geometria, nella
trigonometria, nel calcolo di aree e volumi e nell'astronomia, il calcolo
algebrico porta a metodi più semplici e più veloci. La fusione fra la cultura
indiana e quella greca, che si è verificata nel mondo arabo nei secoli IX e X,
ha favorito la realizzazione di risultati originali e importanti da parte dei
matematici islamici che devono aver esercitato un'influenza notevole sullo
sviluppo della matematica medioevale e rinascimentale, soprattutto nei campi
dell'aritmetica e dell'algebra. È vero ch e
questa influenza della cultura scientifica araba su quella occidentale è ancora
in gran parte da documentare, a causa del gran numero di testi non ancora
esaminati sia nelle biblioteche dei paesi arabi, sia in quelle europee.
Sappiamo tuttavia che ci furono frequenti contatti fra studiosi islamici e
intellettuali occidentali durante il Medioevo: in Spagna, come si è accennato,
soprattutto nei centri di traduzione; in Italia tramite Leonardo Fibonacci
Pisano, con i suoi viaggi in Oriente e le frequentazioni in Sicilia con il
circolo di Federico II di Svevia, amico personale del sultano al-Kamil.
Inoltre, da quando nel 1258 Baghdad fu conquistata dai mongoli, si verificò un
nuovo esodo di studiosi verso l'Occidente e con ciò una maggiore penetrazione
in Europa della cultura scientifica araba. Non si può dunque prescindere dalla
conoscenza dell'eredità lasciata dagli arabi, soprattutto per quanto concerne
l'algebra, una disciplina destinata ad assumere una posizione centrale nella
matematica italiana del XVI secolo, per cui concordiamo con il giudizio
espresso da Roshdi Rashed: Le résultat final qui se dégage de tout cela, c'est
que, de même qu'il est impossible de comprendre ces mathématiques arabes sans
les mathématiques hellénistiques, il est également impossible de comprendre les mathématiques des XVIe
et XVIIe siècles sans les mathématiques arabes [7] . [1] al-Mansûr regna dal
754 al 775, Harun al-Rashid dal 786 al 809 e al-Ma'mûn dal 813 al
833. [2] A. Clot,
Harun al-Rashid Il califfo delle Mille e una notte,
Rizzoli, Milano pp. 38-39. [3] 926a notte, in A. Clot, cit., p. 53. [4] L'opera di al-Khwarizmi si può
leggere, oltre che nella versione inglese e latina, nel testo arabo Kitâb at-jabr wa'l muqâbala a cura di A.M. Mashrafa e
M. Mursi Ahmad, pubblicato al Cairo nel 1968. [5] Se pure presentata su esempi
particolari, la trattazione ha validità generale. [6] L'opera è disponibile nella traduzione
francese di F. Woepke, apparsa nel 1851, e nell'edizione L'oeuvre algebrique
d'al-Khayyâm, a cura di R. Rashed e A. Djebbar, Sources
and studies in the history of Arabic Mathematics 3, University of Aleppo,
I.H.A.S, 1981. [7] R. Rashed, D'Alexandrie
a Bagdad, La naissance de l'algèbre, Entre l'algèbre et
l'arithmétique, in Le matin des mathématiciens... par E. Nöel, Belin
Paris, p. 160. |
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