da
Enrico Giusti, La natura degli oggetti matematici
Torino, Bollati Boringhieri, 1999.





Sarà, disse Qwfwq, e poi io non voglio contraddire nessuno, anzi dichiaro solennemente -prenda nota, e non si dimentichi di scriverlo- che sono pronto a ritrattare tutto quello che dovesse risultare in contrasto con l'insegnamento degli stregoni. Però in quei giorni là che non c'erano ancora i numeri io invece c'ero, e mi ricordo bene come sono andate le cose, mica come questi ragazzi qui che stanno sempre dietro a fare conti e non si accorgono nemmeno se gli passa un elefante davanti al naso.

Quanti eravamo allora non lo so; c'era Gianni con sua moglie, Franco e Kwqw che non erano sposati, Maria, quelli di là dalla strada, e tutti noi. E anche Vfnkw, naturalmente. Ogni tanto qualcuno provava a contarci, ma senza i numeri non veniva mai giusto: mettetevi insieme uno a uno, diceva, tu e tu, tu e Giorgio, tu con quello, Kskj con Maria, e avanti di questo passo, ma alla fine ne avanzava sempre qualcuno e bisognava ricominciare da capo. Una volta sono capitato con un maiale; un puzzo che per levarmelo di dosso mi dovetti anche lavare, non le dico. E poi era tutta fatica e perdita di tempo inutile, tanto i maiali non li sapevamo contare lo stesso. Ma di tempo a quell'epoca ce n'era quanto si voleva, e in questo modo si facevano sempre nuove conoscenze, che sembravamo più di quanti poi si era veramente.

E la sera tutti vicino al fuoco a parlare e a raccontare storie. Di che si parlava, dice? non è che ci fossero tanti argomenti; di mangiare e di caccia, di caccia e di mangiare. Bastava che uno prendesse -che so?- una scimmia, un uccello, anche un pesce, e non la smetteva più di raccontare come e dove e com'era stato difficile, finché tutti non l'avevano imparato a memoria. Una volta che Franco ha preso un topo, grosso sì, ma sempre un topo, ce l'ha rifrullato per un mese di seguito.

Ma il peggiore era Vfnkw. Bravo eh, bravo era bravo, non c'è niente da dire. E poi mica come questi ragazzotti, che a parole le sparano grosse ma poi, quando vai a vedere, se hanno preso un lucertolone che ci mangiano si e no una volta è già tanto. No, no, per Vfnkw ci voleva ben altro; lui se non era minimo minimo un cinghiale o una gazzella non ci si metteva nemmeno. Tempo sprecato, diceva, è più la fatica che fai che quello che mangi.

Ma soprattutto era un cacciatore di tigri. Appena si sentiva un ruggito strano nella foresta, o magari si scopriva che qualcuno, che era andato a raccogliere legna nel bosco, non tornava a casa da un pezzo, lui cominciava ad affilare i coltelli, avvelenava le frecce, rinforzava la punta della lancia, e dopo un po' lo vedevi prendere la strada del bosco, e potevi star certo che non sarebbe tornato senza la tigre. Poteva passare un giorno come un mese, ma a un certo punto lo rivedevi, magro, sporco, una volta con un braccio mezzo staccato, ma sempre con la sua brava pelle di tigre nuova sulle spalle, e le zanne da mostrare a tutti. La festa durava come minimo tre giorni, e lui sempre a raccontare, ogni volta aggiungendo particolari che pareva li inventasse lì per lì.

Fin qui non ci sarebbe niente di male. Ma a lui non gli bastava che tutti stessero lì a sentirlo per tutta la festa; la vita secondo lui si divideva in due parti, quando andava a caccia e quando raccontava, e tutti gli altri buoni ad ascoltare. Si era fatto anche un osso dove faceva una tacca per ogni tigre che ammazzava, e a ognuna aveva dato un nome: Unghia, Duna, Stria, Quatta, Cinghia, e se li ricordava tutti, uno dopo l'altro, e di tutte sapeva raccontare vita, morte e miracoli; come l'aveva trovata, e come era riuscito a mettersi sottovento, e dove si era appostato, e come gli era saltata addosso, e come aveva perso la lancia, e dove aveva colpito col coltello, e come e dove e quando. E non c'era verso di tagliar corto; potevi avere la carne sul fuoco che si bruciava, o il bambino che piangeva, finché non aveva finito non lasciava andare nessuno.

Insomma, un vero inferno, con noi che cercavamo di evitarlo in tutti i modi, e Vfnkw che si nascondeva dietro un formicaio o appollaiato su un ramo di un albero, e quando meno te l'aspettavi ti piombava addosso con il suo osso e le sue storie. Guarda, diceva indicando il quarto segno sull'osso, questa è Quatta; lei stava acquattata sotto un cespuglio e io dietro aspettavo che uscisse per cercare da mangiare. Per tre giorni e tre notti sono stato li senza mangiare e senza dormire... le risparmio il resto, che non finiremmo più.

Era diventata una fissazione; c'erano rimasti solo i ragazzi, che per un po' lo stavano a sentire, ma poi cominciavano a dargli la baia, e gli andavano dietro ripetendo: Unghia, Duna, Stria, Quatta, Cinghia, Tesa, Seta, Lotta, Nova, e via tutta la cantilena.

Alle prime questo faceva comodo, che ormai dal rumore si poteva capire dove stava Vfnkw e svicolare alla svelta quando si avvicinava. Ma per stare appresso a lui, i ragazzi avevano smesso di correre, di lottare, di tirare sassi, di giocare alla guerra, di arrampicarsi sugli alberi; insomma non facevano più tutte le cose importanti, che gli sarebbero servite da grandi, e invece perdevano il loro tempo dietro a Vfnkw e ai suoi segni sull'osso.

Così dopo un po' che questa storia andava avanti siamo andati dal capo, per chiedergli di mettere a posto le cose. Lui per un po' è stato a sentirci, poi ha messo sù quell'aria distratta che fa sempre quando riflette, e che non promette niente di buono, e ci ha detto di andare e di non preoccuparci, che ci avrebbe pensato lui, e insomma quelle cose che si dicono quando si vuole mandare via qualcuno per riflettere con comodo. E infatti dopo qualche giorno non si sono visti più né i ragazzi né Vfnkw, che tutti pensavano che fosse tornato a caccia, anche se non si era sentito di nessuna tigre nelle vicinanze.

Solo dopo ci siamo accorti che stavano tutti in una capanna abbandonata vicino al fiume, con ognuno in mano una specie d'osso, a guardare bene una tavoletta fatta di argilla, sulla quale facevano strani segni. In mezzo c'era Vfnkw, che controllava che tutti ripetessero bene i nomi delle tigri, e ogni tanto si voltava verso gli stregoni, che stavano in un angolo della stanza e parlottavano tra loro. Ogni giorno il capo veniva a vedere che tutto andasse bene.

Per farla breve, dopo qualche mese di questa storia vedo arrivare uno dei ragazzi più grandi, con la sua brava tavoletta in mano, che mi dice: dunque, tu hai stria maiali e cinghia galline, devi pagare duna galline al capo. E fa un segno sulla tavoletta -questo è il tuo nome, dice- e vicino altri segni come quelli di Vfnkw.

Ora, fino a quel momento ci si metteva un po' d'accordo tra noi; ogni tanto uno prendeva una gallina e andava dal capo: capo, t'ho portato una gallina, e tutti erano contenti. Da allora invece tutto è scritto e regolato; chi paga una gallina, chi due, chi anche un maiale. Così il capo, i suoi esattori e gli stregoni s'ingrassano, e il popolo... ma questo non lo scriva, sa com'è.

Insomma, adesso sappiamo quanti siamo, siamo quattrocentosessantacinque. E tutti e quattrocentosessantacinque paghiamo al capo un decimo di quello che raccogliamo o che cacciamo. Sia ben chiaro, io dico che il capo ha diritto a ricevere il giusto dai sudditi, e un villaggio popoloso e importante come il nostro deve essere difeso e ben organizzato, e anche il culto ha le sue spese, che poi quando stiamo male sono loro che ci curano. Ma a tutto c'è un limite; se continua così, finirà che dovremo pagare, dico per assurdo, anche un terzo dei nostri guadagni. E intanto Vfnkw se ne sta seduto alla tavola del capo, e si mangia i nostri maiali e le nostre galline. Ma la pagherà, stia certo. Guardi, mi sono fatto un osso dove registro tutto.